Una fotografia allarmante dai dati Istat: tre
milioni e 230 mila famiglie versano in condizioni di povertà relativa. Il dato
dei poveri assoluti invece, di quelli cioè che “non riescono ad acquistare beni
e servizi per una vita dignitosa” viaggia sui 6 milioni e 20 mila unità: in
soldoni un italiano su dieci. Di questi, tre milioni e 72 mila sono residenti
al Sud Italia, un milione e 34 mila sono minori e 888 mila sono anziani. Nella
nostra regione i poveri sono oltre 600 mila. Più di 400 mila i senza lavoro e nell’ultimo decennio è
raddoppiato il tasso di disoccupazione. Un dato
purtroppo storico: il 50% dei giovani non ha lavoro e faticherà a trovarne uno.
Stiamo pagando lo scotto della
politica priva di capacità progettuale della Regione Calabria che non riesce a
guardare nel suo insieme la complessità della problematica concernente sia la
domanda che l’offerta di lavoro. Al
di là dello sterile dato, da una parte vediamo chi si affaccia per la
prima volta sul mercato del lavoro e che si trova lasciato solo prima di tutto per
quel che attiene alla formazione. I nostri giovani sono stati definiti
“inoccupabili” ma ciò è una responsabilità tutta politica che si vuole
riversare sui giovani stessi, in maggioranza incolpevoli. I giovani dovrebbero essere accompagnati
nel percorso formazione-occupazione. Ma questo oggi non accade a causa di
un’offerta universitaria scollata dall’esigenze delle aziende, a causa delle
scarse risorse economiche-organizzative per la formazione professionale e per le
inefficienti politiche attive del lavoro. Allo stesso modo le riforme del
lavoro non sono mai complessive né profonde. Si vedano per esempio i tentativi
degli ultimi anni di investire sull’apprendistato, che prevede in cambio di
agevolazioni contributive un periodo di formazione e lavoro per i giovani.
Nonostante le agevolazioni il contratto di apprendistato non è mai decollato.
Altra faccia della medaglia, in un contesto di crisi economica, la politica ha ritenuto
di dare impulso alle aziende scardinando i diritti dei lavoratori portando ad
una flessibilità che di fatto si è tradotta in sempre maggiore precarietà.
L’idea liberista di slegare le aziende dai lacci che ostacolano un veloce adattamento
alle esigenze economiche dei mercati ha portato ad una caotica proliferazione
di forme contrattuali con l’intenzione di garantire un risparmio all’azienda ma
tutto a scapito del lavoratore. Paradossalmente, resta il fatto che il costo
del lavoro in Italia è uno dei più elevati d’Europa. Nel meridione d’Italia tutti questi problemi sono amplificati
da una realtà economica più povera e da una notevole carenza di cultura
legalitaria. Lavoro nero, Working poor (lavoratori che pur lavorando restano
poveri) ma soprattutto lavoro “grigio” cioè forme contrattuali legali ma
distorte da una prassi di sfruttamento: lavoratori retribuiti part-time ma
impiegati full-time, retribuzioni nominali presenti in busta paga ma mai
erogate, dimissioni estorte, discriminazioni. Giovani laureati trasmigranti da callcenter scarsamente
retribuiti o costretti a peregrinare di stage in stage senza risultati duraturi.
Il lavoro da diritto fondamentale sancito dalla Costituzione si è trasformato
in una pallida illusione metafisica. Non possiamo permetterci questo depauperamento,
dobbiamo ridare fiducia alle giovani generazioni, impiegare sul campo le loro competenze
rispettando il diritto di ciascuno di poter pianificare un personale progetto
esistenziale. “Giovani generazioni”, in realtà si tratta di una larga parte più
che adulta il cui statuto di “gioventù” rimane tale perché non si riesce a
offrire loro una vera e propria maturazione lavorativa. Che fare? Investire
in innovazione, ricerca, formazione; approntare
politiche di sviluppo e di sostegno; accelerare interventi su infrastrutture
utili e necessarie; lavorare sui servizi; sostenere le start up; utilizzare in
modo mirato e positivo i fondi europei fino adesso sciupati e mal gestiti dalla
Regione Calabria, ma soprattutto garantire stabilità e diritti ai
lavoratori. Un lavoratore “garantito” è un lavoratore che spende e che fa
ripartire l’economia. Abbiamo
bisogno di un mutamento di segno, la politica stessa deve farsi “pratica
politica”, declinarsi concretamente sulle problematiche quotidiane di cui si fa
carico entrando a Palazzo, deve avere una visione che non si sclerotizzi su
risposte emergenziali dell’oggi ma che proietti il suo sguardo verso il futuro.
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